A lezione di alpinismo – o meglio, di vita – con Nives Meroi e Romano Benet: persone semplici, dallo stile essenziale. 

La chiave del loro successo?
L’unione e la pazienza. 

La vera forza sta nel salire insieme

NIVES MEROI E ROMANO BENET,
Primiero san martino di castrozza

Categoria

dicembre 2024

Testo di Linda Scalet, foto e video di Linda Scalet e Filippo Ongaro

Nives Meroi e Romano Benet

Nives Meroi e Romano Benet,
alpinisti

La vita è fatta di occasioni da cogliere al volo, attimi che nella loro breve durata regalano qualcosa di autentico e profondo, da proteggere e conservare, come piccoli tesori, per molto altro tempo.

Lo sa bene Nives Meroi, alpinista italiana che, assieme al marito Romano Benet, ha scalato tutte e quattordici le montagne sulla terra che superano gli ottomila metri di altitudine. Lo hanno fatto solo con le proprie forze, senza avvalersi di bombole di ossigeno o portatori sherpa, sfidando la cosiddetta “zona della morte”.

Ma ne siamo consapevoli anche noi, che non ci siamo lasciati sfuggire l’opportunità di poterli conoscere a “casa nostra”, a Primiero San Martino di Castrozza, in occasione dell’assegnazione del prestigioso premio Piolets d’Or, considerato l’oscar dell’alpinismo, che per la prima volta ha previsto uno speciale riconoscimento ad una alpinista donna.

Lei, occhi azzurri come il ghiaccio che ha scalato, profondi e comunicativi, un dolce sorriso e tanta tenacia.
Lui, una persona a modo e garbata che dosa le parole, intervenendo quando necessario con frasi brevi ma cariche di significato.
Entrambi dotati di una semplicità e gentilezza disarmante, valori tipici di chi ha visto il mondo dall’alto ma sa rimanere con i piedi ben ancorati a terra.

Nives Meroi,
alla premiazione del Piolets d’Or
a San Martino di Castrozza

Nives Meroi

Nives (ci permette di darle subito del tu), quanto sono importanti per te le premiazioni e i riconoscimenti che ti vengono assegnati per la tua carriera di alpinista?

Mi mettono sempre un po’ in imbarazzo. Non so spiegare il perché, ma è questa la sensazione che provo. Sicuramente non avrei mai immaginato di ricevere il Piolet d’Or. Pensa che quando ho ricevuto la notizia dell’assegnazione, stavo passando l’aspirapolvere a casa e continuavo a chiedermi ‘ma a me, perché?’

L’alpinismo è ancora un ambiente prettamente maschile. Dal 1999, anno in cui avevi partecipato ad una conferenza a Belluno sul tema dell’alpinismo femminile, è cambiato qualcosa? Il ruolo delle donne è ancora marginale, specialmente nelle spedizioni himalayane, o ci stiamo avvicinando alla parità di genere? Come si comportano i colleghi uomini nei tuoi confronti?

Sicuramente c’è ancora un po’ di divario, ma rispetto a quegli anni, la presenza femminile è veramente aumentata in maniera meravigliosa e ci stiamo pian piano avvicinando. C’è ancora un po’ di disparità, questo sì, però penso si tratti semplicemente di prendere l’abitudine alla presenza femminile. Anche noi donne, dobbiamo imparare a riconoscere e coltivare le qualità che ci appartengono e ci contraddistinguono dagli alpinisti uomini.
Ad ogni modo, non ho mai avuto difficoltà a conquistare autorevolezza. In montagna basta “annusarsi” per capirsi. I problemi arrivavano invece dall’opinione pubblica che, nonostante avessi un curriculum a volte anche superiore rispetto a quello dei miei compagni, mi considerava la persona che faceva perdere tempo agli altri.

Vi siete conosciuti molto giovani, attorno ai diciotto anni. L’amore per questa passione è cresciuto in contemporanea all’amore come coppia. Quanto questa relazione, la fiducia che vi siete costruiti, vi aiuta nelle scalate e nei momenti difficili in quota?

ROMANO – Beh, è determinante avere un compagno di cordata con cui c’è sintonia, perché ti libera da molti pensieri. Ho arrampicato con diverse persone, ma quando non conosci bene il tuo compagno di cordata e le sue reali capacità, non sai come reagirà nei momenti di difficoltà. Dopo tutti questi anni assieme, so benissimo fino a dove possiamo spingerci entrambi. È la soluzione ideale dal punto di vista tecnico e alpinistico. Se poi hai una compagna che è più brava dei maschi… (ride). L’unico aspetto negativo è che, essendo marito e moglie, c’è sempre un po’ più di preoccupazione.

Se si considera che a quelle quote non si può sprecare fiato, conoscersi così profondamente diventa un grande vantaggio. Ci basta uno sguardo per capirci.

A proposito della preoccupazione di cui parlava Romano, se da un lato la montagna ci fa sentire più vivi che mai, perché ci porta a sfidare i nostri limiti, offrendoci orizzonti diversi, dall’altro conosciamo anche i rischi di questo mestiere. Come riuscite a gestire questa consapevolezza e la paura che uno di voi, salendo insieme verso queste vette, non ce la faccia?

ROMANO – Non so perché, ma non ci ho mai pensato. Nel momento in cui affrontiamo una salita, devo concentrarmi esclusivamente sull’aspetto alpinistico, senza farmi coinvolgere dalle emozioni, perché sarebbe un limite. È chiaro che, in caso di incidente, sarebbe diverso avere a che fare con uno sconosciuto, dato che con lei c’è un altro tipo di legame. Però finchè tutto procede senza problemi…

NIVES – Non puoi permetterti di essere in balia delle emozioni, devi conservare la lucidità per trovare la soluzione al problema che ti si presenta. Per questo è fondamentale eliminare tutto ciò che è superfluo: sia il lato emotivo che le aspettative che uno si fa, i sogni di gloria legati alla conquista della cima. Bisogna rimanere concentrati sull’obiettivo che è sì, cercare di raggiungere la cima, ma prima di tutto è il tornare giù sani e salvi. Specialmente a ottomila metri: non siamo costruiti per vivere in quegli ambienti!

Nives Meroi e Romano Benet

Nives e Romano
in cima all’Annapurna, nel 2017,
il loro 14° Ottomila
Archivio Nives Meroi

Una vostra qualità personale, che vi è utile nel vostro mestiere?

NIVES – Lui è un artista. Certo, fisicamente e tecnicamente è più forte di me, ma Romano ha anche occhio creativo. È qualcosa che va oltre: la capacità di unire istinto e intuito nel riuscire ad individuare il percorso migliore lungo le pareti delle montagne.
La mia qualità è che sono una brava segretaria!

ROMANO – Di difetti non si può parlare? (ridono) Che può essere anche un pregio, in fondo. 
È testarda. Accetta i consigli solo a patto che le servano.
A parte le battute, Nives ha una grandissima resistenza mentale, oltre che fisica, qualità che è difficile trovare in un uomo. Di solito, i maschi, più esuberanti e desiderosi di passare subito all’azione, rischiano di perdere l’entusiasmo se non vedono risultati immediati, e spesso si arrendono prima a livello psicologico, soprattutto durante i lunghi periodi di attesa e le incertezze. Penso che la capacità di attendere e pazientare nelle vie più lunghe e impegnative sia una caratteristica tipicamente femminile. 

Al giorno d’oggi, la pazienza viene considerata una qualità da perdenti. Mentre invece significa saper aspettare il momento giusto, specialmente in montagna. Bisogna attendere che il brutto tempo passi, che le condizioni sulla parete si stabilizzino… Forzare i tempi significa rischiare di compromettere le proprie possibilità. Non ci sono alternative: o aspetti o torni a casa.

E se non vi foste conosciuti, pensate che sareste comunque diventati degli affermati alpinisti o probabilmente avreste fatto tutt’altro?

ROMANO – Io sì. Nel senso che non avrei avuto nient’altro da fare in mezzo ai monti.

Prosegue Nives: Sì, anche perché non lo schioderesti da casa neanche con le bombe! (ridono). Io francamente non lo so.
La passione per la montagna e per la natura c’è sempre stata, quindi probabilmente avrei comunque seguito questa strada. Prima di conoscerci, ognuno di noi aveva già iniziato ad arrampicare separatamente, per conto proprio… pensa che l’ho conquistato spiegandogli un nodo!


Dai, spiegateci meglio come vi siete conosciuti!

ROMANO – Molto banalmente. Durante gli anni delle scuole superiori, lei viveva con mia sorella a Udine. La distanza da casa, circa 100 chilometri, rendeva necessario trovare un alloggio in città. Ho scoperto che frequentava la montagna e così, visto che l’occasione era comoda, ho cominciato a fare visita a mia sorella più spesso.

NIVES – Sì, era sempre lì, anche a mangiare!

 

Si scambiano alcuni sguardi, consapevoli della fortuna celata in quella circostanza, che ha trasformato le loro vite rendendole ciò che sono oggi: ricche, semplici e, senza dubbio, tutt’altro che noiose.

Si dice che la montagna aiuti a conoscere meglio se stessi. Com’erano Nives e Romano prima di vivere queste esperienze, e come sono cambiati grazie agli insegnamenti che la montagna gli ha offerto?

ROMANO – Posso dire che la montagna, in particolare il lato dell’alpinismo e dell’alta quota che insegna a pazientare, mi ha salvato la vita durante la malattia, che è durata diversi anni. Non sono caduto in depressione né mi sono illuso con troppe speranze. Ho semplicemente aspettato, proprio come si fa in una spedizione: quando resti a lungo fermo in una tenda, aspettando che il tempo migliori. La montagna mi ha insegnato la pazienza, una lezione che ora applico in ogni decisione e aspetto della vita.

NIVES – La montagna ti insegna ad accettare il fallimento senza scoraggiarti, a coltivare la pazienza e l’umiltà, e a capire che la libertà richiede disciplina e responsabilità condivise. Questi insegnamenti sono fondamentali anche nella vita quotidiana. Spesso tendiamo a delegare la responsabilità ad un’entità astratta, dimenticando che siamo parte del gruppo e che spetta a noi agire in modo consapevole all’interno di esso. Questo principio è essenziale anche nell’approccio all’alta quota e al turismo commerciale. Viviamo in un’epoca che ci vede soprattutto come consumatori, ma siamo prima di tutto cittadini, e come tali possiamo fare delle scelte. Possiamo decidere come affrontare una salita: con bombole di ossigeno, seminando immondizia ovunque e facendoci trascinare dai climbing sherpa, oppure possiamo scegliere di affrontare la montagna in una maniera rispettosa. Personalmente, forse per deformazione da casalinga, quando scendo un ottomila ho sempre con me un sacchetto dell’immondizia. È una questione di responsabilità: assumersi le conseguenze delle proprie scelte.

Romano Benet

Romano
impegnato nella scalata delle pareti dell’Annapurna
Archivio Nives Meroi

Il vostro è uno stile pulito, essenziale, senza l’uso di sherpa né di bombole d’ossigeno. La vera differenza risiede proprio nel modo in cui si affronta la salita. In entrambi i casi si raggiunge la vetta, ma il percorso scelto fa la differenza.

NIVES – Certo, anche perché é estremamente semplice: non siamo fatti per vivere a quelle quote. La cosiddetta “zona della morte” è così chiamata perché l’organismo umano non può sopravvivere lì per più di un paio di giorni. Salire con le bombole di ossigeno, che ormai erogano fino a 8 litri al minuto, mentre si è trascinati dal climbing sherpa, come fossero mandriani con il bestiame, fa una differenza sostanziale. Arrivare in cima all’Everest in quel modo significa, sì, essere fisicamente sulla vetta, ma non fisiologicamente. E questa è una distinzione fondamentale. Manca la consapevolezza, il sapere fino a dove possiamo spingerci e riconoscere il momento giusto per tornare indietro.

Quindi anche la preparazione e l’acclimatamento sono completamente diversi.

ROMANO – Esatto, è un processo più lento, l’opposto dei ritmi di oggi, dove tutto deve essere veloce. Molti hanno poco tempo e cercano scorciatoie, usando ossigeno supplementare, camere ipobariche o altri sistemi di acclimatamento. Ma non è obbligatorio scalare una vetta a tutti i costi. Dovremo affrontarla con l’unico mezzo autentico che abbiamo: noi stessi. Se non ce la fai, cambia obiettivo, scegli un’altra cima. Questa è la vera assurdità: pensare che tutti possano arrivare ovunque. Non trovo giusta questa mentalità del “tutto è dovuto”.

Ci spiegano anche che al campo base non c’è alcun punto di contatto tra chi affronta la parete in stile alpino e chi, invece, sceglie di utilizzare ossigeno supplementare e sherpa.
Chi si affida a questi aiuti spesso non comprende la differenza. È impossibile parlare la stessa lingua: si tratta di mondi completamente diversi.

Nives Meroi

Nives,
il giorno della premiazione del Piolets d’Or

Qual è la differenza tra raggiungere la vetta di un Ottomila già scalato da altri e conquistare una cima più bassa, attorno ai seimila metri, ma essere i primi a farlo?

ROMANO – Beh, sicuramente c’è più soddisfazione nel fare qualcosa di nuovo, ma quando arrivi in cima sei così stanco che, in quel momento, cambia poco! (ride). Devi tornare giù il prima possibile, non ci sono grandi esplosioni. La fatica è la stessa, sia per una cima già scalata sia per una mai raggiunta prima. Forse, quando torni a valle, senti un po’ più di orgoglio per aver compiuto qualcosa di unico, ma è un aspetto secondario. Alla fine, ciò che conta davvero è raggiungere la vetta, qualunque essa sia.


Quindi la vera emozione arriva una volta scesi, solo allora si realizza davvero ciò che si è compiuto?

ROMANO – Al campo base sei sollevato che la fatica fisica sia finita. È quanto torni a casa che inizi a renderti conto di quello che hai fatto. Serve un po’ di tempo per metabolizzare l’esperienza.

NIVES – Ogni esperienza è un pezzo di un puzzle più grande. È fondamentale prendersi il tempo necessario per distillarla e capire davvero cosa ti ha dato.

ROMANO – Sennò si riduce tutto a una semplice collezione di traguardi, come piantare una bandierina per ogni obiettivo raggiunto. Diventa un po’ triste.

Conoscersi così profondamente, si è rivelato un aiuto fondamentale anche in un momento difficile, nel 2009.

Durante la scalata del Kangchenjunga, a pochi metri dalla vetta, Romano ha avvertito un malessere e una stanchezza improvvisa. In quell’istante, hanno deciso di rinunciare alla cima e iniziare la discesa, mettendo da parte la possibilità per Nives di diventare la prima donna al mondo a scalare tutti gli Ottomila.
Soltanto in seguito hanno scoperto la malattia di Romano.

Nives, lì hai dimostrato ciò che fa davvero la differenza: il vero valore di una persona.

Nives Meroi

Nives, 
in cima al Kangchenjunga
Archivio Nives Meroi

NIVES – In quel momento non potevo immaginare che fosse qualcosa di così grave, che era andato a cercarsi una malattia, oltretutto rara. Nonostante fosse solo stanco e non agonizzante, noi donne abbiamo questo “senso in più”. In 30-40 anni di montagna insieme, lui era stato sempre davanti, come quei cani che appena li liberi dalla catena si fiondano a perdifiato. Perciò mi sono chiesta: “finora abbiamo scalato tutti e undici gli Ottomila sempre insieme. Ha senso mollarlo qui, rischiando di ritrovarlo con le zampette per aria, solo per continuare la garetta delle “tre babe” a chi raggiunge per prima il record?” ROMANO – Nonostante non stessi bene, speravo che lei continuasse, perché significava l’arrivo di altri sponsor. Sai, se uno ha la gamba rotta, dici “sì, questo sta male” ma io ero solo stanco. Com’è stato tornare sul Kangchenjunga nel 2014, raggiungendo la cima dopo aver superato la malattia, rispetto a quando scalavi un altro Ottomila prima che tutto questo accadesse? ROMANO – Beh, per quanto mi riguarda, quando mi chiedono quale sia la cima più importante che ho raggiunto, rispondo senza dubbio il Kangchenjunga dopo la malattia. È sicuramente la più significativa, perché mi avevano dato tra virgolette per spacciato (NIVES – senza le virgolette, è così). Nella migliore delle ipotesi, mi sarei ritrovato a fare una vita da impiegato, con tutto il rispetto per quel lavoro, naturalmente. Quindi ti avevano sconsigliato di continuare a seguire la tua passione. ROMANO – Sì, decisamente. Sembrava che non avrei mai più potuto praticare sport a certi livelli. Il primo test è stato un trekking su un 6400 metri e mi sono sentito davvero bene. Subito dopo siamo ripartiti per il Kangchenjunga. Arrivare in cima, nello stesso posto dove tutto si era fermato… mi sentivo bene. Siamo saliti rapidamente, eravamo gli unici su quel tratto di montagna in quel periodo. La cima era perfetta. Quel ritorno ha cancellato tutto ciò che era accaduto prima. Quando mi chiedono della malattia, non ricordo quasi niente. il mio cervello l’ha cancellata. Quei due, tre anni difficili — quattro, se li considero nel complesso — li ho rimossi dalla mia vita.

Ad ascoltarlo vengono i brividi. L’impresa che hanno portato a termine ha dell’incredibile.
Dal modo in cui ne parla, sembra davvero che la brezza respirata su quella cima abbia risanato la sua anima. Una folata di vento capace di premere un tasto di reset, cancellando il dolore e le difficoltà appena vissuti.

Prosegue Nives: Su quella vetta eravamo solo noi due. Le altre spedizioni erano dietro di un paio di giorni. Ma quello che ci piace dire è che in realtà, non eravamo soli, perché con noi c’erano tutte le persone grazie alle quali abbiamo superato quello che abbiamo chiamato il “15° Ottomila”. C’erano i medici, il personale del reparto, i donatori di sangue, il fratello genetico di Romano. In realtà, eravamo lassù grazie a tutti loro. La vera forza sta nel salire insieme. Senza l’unione, da soli, non si va da nessuna parte.

Di nuovo Romano: In tanti si sono dati da fare per me. Nella mia storia c’è anche una buona dose di fortuna, ma questo aiuto è stato fondamentale. Mi hanno utilizzato anche come “cavia”: sono il primo al mondo doppio trapiantato dallo stesso donatore. Siamo usciti dai protocolli come ultima speranza. In una società che a volte sembra superficiale, quella è stata una delle esperienze più belle, che ricordo con piacere.

Nives Meroi

Nives, 
nelle montagne di casa: le Alpi Giulie slovene
Archivio Nives Meroi

Siete partiti dalle Alpi Giulie, montagne di casa, passando anche per le Dolomiti, e poi siete arrivati all’Himalaya. Qual’è la differenza tra queste montagne? Quali caratteristiche di ciascuna sentite più vostre?

ROMANO – Le Alpi Giulie sono montagne molto severe, nonostante la loro bassa altitudine (raggiungono i 2800 metri). Fin da piccoli siamo abituati a un clima rigido, quindi non abbiamo paura del freddo né del disagio. Inoltre, sono montagne poco frequentate, o almeno lo erano… ora un po’ meno, ma decisamente non come le Dolomiti. Spesso, soprattutto nei primi anni, si trovava la stessa solitudine che poi abbiamo sperimentato in Himalaya. Oggi, però, non possiamo più dire la stessa cosa: c’è sicuramente più gente in Himalaya che nelle Alpi Giulie. L’approccio alla montagna è rimasto lo stesso. La nostra filosofia è sempre stata quella di essere autonomi, di muoverci con i nostri mezzi senza dipendere dagli altri. Non abbiamo fatto altro che portare questa mentalità in Himalaya. Oggi ci sono tecniche alpinistiche straordinarie, ma manca quella componente di avventura che rendeva tutto più autentico.

 

Al di là delle scalate in sé, cosa vi è rimasto di più da questi viaggi e dalle persone che avete incontrato?

NIVES – A me piace vedere come, tirando un filo, la vita della gente di montagna si equivalga in tutte le latitudini. Ci sono dei tratti comuni: l’uso degli strumenti, la gestione del territorio, la suddivisione degli alpeggi, le coltivazioni… È bellissimo vedere come l’ambiente abbia forgiato l’uomo insegnandogli le regole per poterci vivere. Ormai siamo di casa: nei villaggi, la gente ci saluta dicendo “ci vediamo l’anno prossimo!”. È il nostro ambiente, ci sentiamo a nostro agio.
Purtroppo, però, questo sta cambiando a causa dell’afflusso turistico sempre maggiore.
Noi, come montanari, abbiamo una grande responsabilità: se non continuiamo a prenderci cura del territorio, i problemi finiranno per arrivare anche a valle. È fondamentale avvicinarsi con rispetto, piuttosto che comportarsi da turisti conquistatori. Agli sherpa, ovviamente, diamo un po’ di fastidio, perché non portiamo soldi.

Ultima domanda per concludere: quali sono i vostri prossimi obiettivi? Altre salite sugli ottomila o vi concentrerete su qualcosa di più vicino?

ROMANO – Le idee ci sono e ci sarebbero moltissime cose da fare. Prima di tutto, però, cerchiamo luoghi dove non c’è affollamento. Questa è la base, l’idea è fare qualcosa di nuovo. Sarebbe bello affrontare un Ottomila, ma sono estremamente costosi. Per noi è diventato davvero difficile, soprattutto perché non abbiamo supporti economici. Essere in due ad affrontare il viaggio è come dover sbattere la macchina due volte all’anno: le spese si equivalgono. Comunque, sì, fare qualcosa di nuovo è sempre l’obiettivo. Ci sono ancora tante belle vie da percorrere!

NIVES – La fantasia non ci manca, ce n’è anche per le prossime vite!

Ci salutiamo, grati per il tempo che ci hanno dedicato, un gesto non scontato, considerando i ritmi frenetici della giornata e la cerimonia che li attendeva.

È stato un piacere fare due ‘ciacole’ con voi! – ci dice Nives.

L’incontro si conclude così, lasciandoci un arricchimento che va oltre le parole, destinato a guidarci nella nostra ricerca di nuove testimonianze di montagna.

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