Quando la motivazione nasce da dentro, non servono spinte esterne per trovare la propria strada.
C’è una scintilla interiore che si accende nel momento in cui fai ciò che ami, guidandoti quasi senza che tu possa accorgertene verso il tuo destino.

Determinazione, tranquillità, disciplina

Il biathlon è una palestra per la mente

TOMMASO GIACOMEL,
Primiero san martino di castrozza

Categoria

marzo 2025

Testo e foto di Linda Scalet, video di Irene Fontana

Tommaso Giacomel,
25 anni
Vice campione del mondo di biathlon

Cosa si nasconde dietro un grande atleta?

Nell’immaginario collettivo, il successo sportivo è spesso attribuito a un talento innato, intangibile e quasi miracoloso, o a genitori ambiziosi che proiettano sui figli i propri sogni irrealizzati. Altre volte si crede che una dieta ferrea, fatta di cibi super salutari misurati al grammo e senza possibilità di sgarro, possa fare la differenza.

Ma questi sono solo stereotipi. A smontarli è il campione di biathlon Tommaso Giacomel, che ci ha raccontato cosa significhi davvero costruire una carriera vincente: i grandi atleti non sono esseri straordinari baciati dalla sorte, ma persone comuni che hanno trasformato il proprio talento attraverso dedizione, sacrificio e passione.

Perché quando la motivazione nasce da dentro, non servono spinte esterne per trovare la propria strada. C’è una scintilla interiore che si accende nel momento in cui fai ciò che ami, guidandoti quasi senza che tu possa accorgertene verso il tuo destino.

Tommaso,
mentre prende la mira con la sua carabina calibro .22

Abbiamo parlato con lui di sport, di genitorialità, di alimentazione, di come affrontare la perdita di una persona cara, di soddisfazione, di aiuto psicologico, di segreti nascosti che, prima o poi, trovano sempre il modo di venire a galla, dell’importanza dell’autocritica e del sapersi dare dei limiti, di futuro…

Un intreccio di aspetti che accomunano ogni individuo e che, forse proprio per questo, hanno reso la conversazione autentica e spontanea, nonostante il nostro approccio al biathlon sia relativamente recente.

Le sue parole ci hanno ispirato profondamente, riflettendo il frutto di un intenso lavoro di auto-conoscenza, per niente scontato alla sua età. Siamo certi che, dopo questa lettura, non saremo i soli.

Cos'è e come funziona il biathlon?

Se ti chiedessi chi è Tommaso, come persona e come atleta, cosa mi risponderesti?

Bella domanda!
Tommaso è un ragazzo semplice, umile, credo educato (ride) e tranquillo. Come atleta, direi determinato, disciplinato e… bravo. Sì.
Determinato, perché sono una persona che ha sempre saputo cosa voleva. E l’ho quasi sempre raggiunto grazie a una grande disciplina nel lavoro. Credo che la disciplina, sia nella vita che nello sport, sia essenziale per ottenere ciò che si desidera.
Ognuno deve essere consapevole che, se non dà quel qualcosa in più, non arriverà mai dove vorrebbe.

Bravo, perché, insomma, so di esserlo nel mio sport, e i risultati finora me lo stanno dimostrando. Spero di continuare su questa strada!

Le soddisfazioni non arrivano solo da quello che chiamiamo banalmente talento, ma richiedono anche tanta costanza, tenacia e allenamento.

I miei allenatori mi hanno sempre detto che il talento va coltivato. Serve tanto lavoro: solo con il talento non si va lontano. Da bambino o ragazzo, l’allenamento e la disciplina possono essere meno rilevanti, ma ai massimi livelli, come nel mio caso, se non ci metti dietro una grande quantità di lavoro, non arriverai mai.

Didascalia esempio, Didascalia esempio

Quante ore al giorno ti alleni e che tipo di allenamento segui?

È variabile. Da maggio a ottobre ci alleniamo dalle 5 alle 6 ore al giorno, escludendo la parte dedicata al tiro. In una settimana, quindi, accumuliamo circa 33–34 ore di allenamento fisico. Facciamo un po’ di tutto, naturalmente a seconda della stagione. D’estate, ad esempio, ci alleniamo molto di più in bici, mentre a ottobre, quando le strade sono spesso ghiacciate e piene di ghiaia, ci dedichiamo maggiormente allo skiroll. In aggiunta, andiamo in palestra e corriamo, sia su strada che in montagna.

Hai anche delle giornate di riposo?

Sì, noi calcoliamo il volume totale di allenamento su base settimanale. Se in una settimana abbiamo 30 ore di allenamento, possiamo decidere di distribuirle su 6 giorni anziché 7, lasciando un giorno di riposo. La strutturazione del programma di allenamento è molto complessa e articolata. Ai massimi livelli, tutto deve essere eseguito nel miglior modo possibile, e ci sono giorni in cui mi concedo un po’ di riposo.


L’allenamento viene studiato e personalizzato per ogni atleta?

Ogni atleta ha caratteristiche ed esigenze diverse, quindi l’allenamento viene adattato su misura. Fino a settembre, il programma è abbastanza standard, ma man mano che ci avviciniamo alla stagione competitiva, diventa più specifico. Quando siamo in raduno con la squadra, tutti svolgiamo gli stessi esercizi, ma a casa ogni atleta segue un programma personalizzato.

Quanto è importante il clima di squadra? Vi supportate a vicenda o vi vedete principalmente come avversari?

Il clima di squadra è fondamentale. La squadra è come una seconda famiglia. Passiamo circa 200 giorni l’anno lontani da casa, quindi è fondamentale creare un buon clima. È chiaro che a volte possono esserci degli screzi con i compagni di squadra, con gli allenatori o con il fisioterapista, ma siamo persone adulte e cerchiamo di andare d’accordo con tutti.

Da quante e quali figure è composto il vostro team?

D’estate siamo in sei. Quando facciamo i raduni, solitamente alloggiamo in appartamento, quindi abbiamo sempre un cuoco con noi. Quando andiamo all’estero, il cibo degli alberghi non è sempre dei migliori, preferiamo soggiornare in appartamento perchè anche una pasta preparata bene può fare la differenza sul nostro umore. Il nostro team è composto da due allenatori: uno si occupa della parte fisica, l’altro della tecnica del tiro. Inoltre, c’è sempre un fisioterapista. In inverno, quando ci uniamo alla squadra femminile, ci sono anche i membri del loro team, oltre al direttore tecnico e agli skiman, che sono 6-7 persone che si occupano della preparazione degli sci.

Tu quanti paia di sci usi?

Ho circa settanta paia di sci. Sono tanti, ma ci sono atleti che ne hanno ancora di più. Siamo seguiti dalle aziende fornitrici, e ogni skiman ha i suoi atleti: il mio segue me e Lisa Vittozzi. Si occupa della preparazione degli sci, un lavoro impegnativo e molto dettagliato. È una grande responsabilità! Circa 20 paia di sci sono per la neve fredda, 20 per le temperature intermedie e altri 20 per la neve bagnata.

È un po’ come nella Formula 1, quando fanno il cambio gomme in base alle condizioni del terreno! Tornando indietro, tu sei partito da casa, la valle di Primiero. Quando hai iniziato, c’era già una squadra di biathlon o hai cominciato come fondista?

Io ho iniziato con lo sci di fondo. In realtà, ancora prima, da piccolo, praticavo sci alpino. Non sapevo che mio papà fosse stato un atleta professionista nello sci di fondo. Non me lo aveva mai detto, perché non avrebbe mai voluto per i suoi figli una vita come la sua, di fatica e sacrifici.
È uno sport molto impegnativo e lui ha sempre fatto una fatica enorme. Come dice sempre mia zia, che è fisioterapista – e ne sono convinto anch’io – l’attività motoria fa bene, ma lo sport ad altissimo livello, purtroppo, non fa bene per niente, per tantissimi motivi.
Un giorno, mentre facevo zapping in TV, ho visto una gara di sci nordico e ho detto a mio papà: ‘Bello questo sport, mi porti a sciare?’. Mi ha chiesto se ero sicuro di volerlo provare, io ho annuito con decisione e siamo andati insieme un paio di volte. Mi ha iscritto al corso dell’U.S. Primiero e ricordo che già alla seconda lezione sono passato dal gruppo dei super principianti a quello avanzato, saltando diversi livelli in un solo giorno, perché volevo solo arrivare prima degli altri e andavo velocissimo!
Mi sono avvicinato al biathlon in prima media, grazie a Marcello Pradel, un ex biatleta della Guardia di Finanza. Ha fatto acquistare alla società sportiva due fucili ad aria compressa e sono stato il primo a provarli. Ho praticato biathlon per un paio d’anni e, quando è stato il momento di scegliere la scuola superiore, ho deciso di andare lontano da casa, a Malles, in Val Venosta. Credo che quella sia stata una scelta fondamentale per il mio futuro. Nel 2017 sono entrato a far parte della Nazionale, prima nella squadra Juniores e poi nell’Elite.

In questa scuola ti sei concentrato sul biathlon?

Al primo anno mi allenavo in multidisciplina: 3-4 volte a settimana con i fondisti e 1-2 volte con i biatleti. La sera, verso le 21:00, andavo con un biatleta a sparare nel poligono interrato della scuola. Volevo imparare velocemente. Dopo il primo anno, ho deciso di concentrarmi solo sul biathlon. Mi piaceva molto il gruppo e avevo già stretto delle amicizie. Mi divertivo di più praticando questo sport.

Cos’ha in più, secondo te, il biathlon rispetto allo sci di fondo? Cos’è che lo rende così affascinante?

Te lo dico in inglese: il thrill, l’adrenalina che provi durante la fase di tiro. È una combinazione di due sport, lo sci di fondo e il tiro a segno con la carabina, che non potrebbero essere più diversi tra loro. Nel biathlon c’è sempre quel brivido in più che ti dà il poligono. Non sai mai cosa può succedere. Arrivano insieme 30 persone al poligono e, dopo il tiro, la gara si spacca in due, tre o quattro gruppi. Esistono tantissimi formati di gara diversi. Anche nei giorni consecutivi, non ci sono mai due gare uguali, quindi la classifica può cambiare continuamente.

Fino a qualche anno fa, il biathlon non era uno sport molto conosciuto. Ti è mai capitato che qualcuno non capisse quale fosse il tuo sport?

Mi è successo spesso di incontrare persone che non avevano la minima idea di cosa fosse il mio sport, ma non l’ho mai vissuto come un problema. Ora che ho raggiunto una certa notorietà, non mi dispiace affatto se la gente non mi riconosce per strada o non mi chiede foto e autografi. Sono un atleta quando faccio le gare e mi alleno, ma nella vita di tutti i giorni, quando sono con i miei amici o con Elisa, voglio semplicemente essere una persona normale. Quello che mi rende davvero felice, però, è vedere come il biathlon sia diventato molto più conosciuto. Non si tratta solo di me, ma dello sport in sé, e questo è fondamentale per la sua crescita. È una disciplina estremamente televisiva: basta guardarla una volta per appassionarsi.

Il talento va coltivato. Se non ci metti dietro una grande quantità di lavoro non arriverai mai. Credo che la disciplina, sia nella vita che nello sport, sia essenziale per ottenere ciò che si desidera.

Grazie a te è stato realizzato un poligono di tiro anche a Primiero.

Sì, grazie soprattutto a mio papà, che ha spinto molto per portare avanti questo progetto. Altrimenti, l’impianto più vicino sarebbe stato a Tesero o Lavazè. Avere una struttura del genere qui per allenarsi è davvero utile.


E ora c’è anche una squadra di biathlon dell’U.S. Primiero!

Sì, e ci sono tanti bambini che ne fanno parte. Attualmente, ci sono più bambini che praticano biathlon rispetto a quelli che fanno sci di fondo. Per me è una grande soddisfazione!


La rivincita del biathlon! Ma ai bambini che cominciano viene data un’arma da fuoco?

No, si comincia con un fucile ad aria compressa. I colpi sono piccolissimi e viaggiano molto più lentamente.
Si inizia così, sparando a una distanza di 10 metri. Non portano mai il fucile in spalla, lo appoggiano sempre sulla rastrelliera del poligono. Dal primo anno di scuola superiore, si passa al calibro .22, che è quello che uso io.
I primi anni possono essere difficili per i genitori, perché devono fare il porto d’armi e assumersi la responsabilità che il figlio spari con un’arma da fuoco che può essere pericolosa. Può uccidere, visto che il colpo viaggia a 400 metri al secondo e può percorrere fino a 2 km prima di perdere potenza. Quando il ragazzo o la ragazza raggiunge i 18 anni, è necessario che prenda piena responsabilità e completi tutte le procedure legali per poter maneggiare un’arma.

Quanto è importante la tecnica e quanto la componente mentale nel biathlon? Ti descrivi come una persona tranquilla, e mi verrebbe da dire ‘per fortuna’, visto che hai in mano un’arma da fuoco!

Il biathlon è per il 95% tranquillità e concentrazione e per il 5% tecnica. Mi alleno con la squadra di Coppa del Mondo da 5 anni, e in ogni stagione spariamo circa 15.000 colpi. A forza di ‘battere il chiodo’, con tutta questa pratica, chiunque di noi sa sparare! Lo si nota durante gli allenamenti pre-gara, dove non sbaglia mai nessuno. Però, alla fine, conta solo quello che fai in gara: è lì che devi mettere in campo tutta la tua concentrazione e tranquillità per fare il lavoro giusto nel momento giusto.

Ogni biatleta possiede una forza mentale davvero elevata. Spesso gli allenatori cercano appositamente di farci arrivare all’esaurimento e ci fermano appena prima di raggiungere il limite.

Come si riesce ad allenare la mente?

È dura. Il biathlon è uno sport estremamente drenante dal punto di vista mentale. Da fuori può sembrare che sparare sia un divertimento, ma ogni biatleta di buon livello possiede una forza mentale davvero elevata.Spesso gli allenatori cercano appositamente di farci arrivare all’esaurimento, facendoci sparare così tanti colpi che, quando cominciamo a sentirci stanchi e poco lucidi, iniziamo a sbagliare. Ci fermano appena prima di raggiungere il limite, dandoci stimoli molto forti. Naturalmente, quel limite non deve mai essere superato, altrimenti diventa un problema. Quando andavo alle superiori, tra i 17 e i 18 anni, per un paio di anni ho lavorato con una psicologa. Mi ha aiutato molto a diventare più consapevole di chi sono e di quello che so fare, e mi ha aiutato anche a ridurre la pressione che mi ero messo addosso. Sinceramente, avevo paura di non riuscire a ripagare tutti gli sforzi economici che i miei genitori sostenevano per me. Il biathlon è uno sport di nicchia e molto costoso. C’è il costo degli alberghi, circa una decina di trasferte ogni inverno, e poi l’attrezzatura: gli sci, il fucile, che costa moltissimo, e tutto il vestiario. È uno sforzo non da poco per le famiglie. Devo ringraziarla: quando trova i miei articoli di giornale, me li manda sempre. È sempre bello parlare un po’ con lei.

E la paura di tuo papà, che i figli seguissero la sua strada perché troppo faticosa, è stata confermata o smentita?

No, al contrario. È sempre stato il mio sogno, la mia passione. Sono fortunato a poter fare della mia passione una professione. Quello che avevo sempre sognato, ora lo faccio da professionista, e posso farlo quando voglio, senza vincoli di orario. Sto vivendo il sogno che avevo da bambino, correndo al massimo livello e competendo contro gli atleti più forti al mondo in questo sport.

In questi anni di Coppa del Mondo, com’è cambiata la tua sicurezza e consapevolezza in questo sport?

È cambiata molto. Nei primi anni, quando sei ancora un “rookie” (un esordiente), pensi di poter spaccare il mondo, e invece prendi solo delle bastonate sulla schiena perchè competi con atleti più esperti, che hanno una marcia in più e sanno come gestire le gare. Non ho mai avuto paura di affrontarle, ma all’inizio, nelle gare di Coppa del Mondo, partivo fortissimo nei primi chilometri e poi esplodevo verso la fine perché non avevo ancora l’esperienza per gestire le energie in modo efficace. Però, anche i miei allenatori mi dicevano che, nonostante quello che facevo fosse un errore, finché ero giovane andava bene così, perché apprezzavano il fatto che non avessi paura di ‘esplodere’ e di arrivare al traguardo anche strisciando.
Nei primi anni, quando ti alleni con gli atleti più forti della squadra, vuoi sempre stare al loro livello, e ogni allenamento diventa una gara. Te le suonano quando vogliono. I primi 2-3 anni sono stati davvero impegnativi, ma mi hanno forgiato tanto. Mi hanno insegnato molto. Ora, allenarsi non è più così faticoso. Mi stanco, ma recupero molto meglio.

Che effetto ti fa oggi gareggiare contro quelli che erano, e probabilmente sono ancora, i tuoi idoli?
Inizi a notare che ti temono un po’?

È una figata. Sicuramente mi temono, perché mi hanno detto che divento sempre più pericoloso. Riconoscono la mia forza, e mi fa piacere sentirlo. Mi piace molto di più competere che fare biathlon; per me, tutto è una competizione.  Anche quando gioco a carte voglio vincere. È bello correre contro le persone che guardavo fin da piccolo in TV e che ho sempre ammirato.


Chi sono i tuoi idoli nel biathlon e nello sport in generale?

Un idolo del biathlon si è ritirato recentemente, insieme al fratello. Parlo dei fratelli Johannes e Tarjei Bø, norvegesi, che hanno disputato la loro ultima gara la scorsa settimana a Oslo. Prima di loro, quando ho iniziato a seguire il biathlon, il mio grande idolo era il francese Martin Fourcade. Anche lui era a Oslo per celebrare la fine della carriera dei fratelli Bø, e quando mi ha visto, mi ha stretto la mano dicendo: “You did a great job this season!”
Il mio allenatore era accanto a me e mi ha detto: “Beh, se te l’ha detto uno che ha vinto così tanto come lui, devi credergli. Non lo dice a caso.” Questo mi ha fatto molto piacere.

Essendo appassionato di tanti sport, soprattutto tennis e ciclismo, dico sicuramente anche Novak Djokovic e Mathieu van der Poel.

Cos’è che ammiri di loro?

Di Djokovic ammiro la forza mentale che ha. Molte partite le ha vinte grazie alla testa, più che al “dritto-rovescio-servizio”.
Di van der Poel, ammiro la sua lucidità in gara e la capacità di non sbagliare mai nelle occasioni importanti. Lui è una vera rappresentazione del talento puro. Pratica tutte e tre le discipline del ciclismo: strada, gravel e mountain bike, ed è forte su qualsiasi tipo di terreno.


I norvegesi sono avvantaggiati nel biathlon?

Sono avvantaggiati nello sport in generale. Credo che abbiano un forte retaggio culturale, che inizia fin da bambini. Ogni anno, quando arriviamo a Oslo, andiamo a sciare sulle piste turistiche che ci sono sulle colline e vediamo famiglie intere con i bambini. Si fermano a fare picnic lungo le piste, trascorrendo l’intera giornata sugli sci. Questi bambini sono incredibilmente fortunati: praticare sport fin da piccoli, senza rendersi conto di quanto sia importante, li aiuterà sicuramente in futuro. Hanno una visione dello sport molto diversa dalla nostra. È un’eccezione: ci sono loro e poi c’è il resto del mondo, che li guarda con ammirazione da sotto.

Credo che un certo grado di autocritica sia fondamentale, perché non si è mai arrivati davvero.

Hai mai pensato di mollare tutto e trasferirti lì?

Non posso, ma mi piacerebbe. Non è detto che non accadrà in futuro.


O magari, se non sarai tu ad andare in Norvegia, non è detto che non sia la Norvegia a venire a Primiero. Potresti essere il primo a portare in Italia quel tipo di stile di vita.

Ci sto provando. Ho molti amici norvegesi e sto imparando molto dal loro modo di vivere, che ammiro davvero tanto. Spero di riuscire a portarlo qui.

Determinazione e autocritica sono tratti che ti caratterizzano molto. Quando le cose non vanno come vorresti, sembri essere il tuo critico più severo. Quanto pesa la pressione che metti su te stesso e quanto è importante per te la vittoria?

Vincere è quello a cui ho sempre aspirato di più. È vero che sono molto autocritico, ma credo di essere anche molto oggettivo nelle critiche che mi faccio. Quando sbaglio, riesco a riconoscere il tipo di errore senza cercare alibi o scuse nei fattori esterni, come il vento o il meteo. Se inizi a cercare scuse, non riuscirai mai a migliorare. Questo vale anche nella vita di tutti i giorni. Se uno studente fa una verifica di matematica e prende un brutto voto, giustificandosi con il fatto che l’insegnante lo odia, senza riconoscere i propri errori, continuerà a prendere 4 anche cambiando professore ogni mese. Credo che un certo grado di autocritica sia fondamentale, perché non si è mai arrivati davvero. Non ci si può mai rilassare troppo. Cerco sempre qualcosa su cui lavorare.

Una critica costruttiva insomma. Ti abitui a convivere con grandi alti e bassi.

Il biathlon è questo: sono le montagne russe. Puoi passare dal vincere all’arrivare ‘esimo’ anche nel giro della stessa gara.
In una competizione con 4 poligoni, se nei primi tre fai ‘zero-zero-zero’ errori e vai forte sugli sci sei primo, ma se nell’ultima serie fai un disastro, puoi ritrovarti ‘esimo’. È fondamentale trovare un equilibrio e imparare a digerire le sconfitte molto velocemente.
Si perderanno sempre più gare di quante se ne vincano.
I casi di atleti che vincono più gare di quante ne perdano sono praticamente inesistenti.

Come si fa a tenere alta la motivazione?

Bisogna avere fame. È difficile. La motivazione, prima di tutto, non è costante e non è giornaliera. È un po’ come quando inizi un lavoro nuovo: all’inizio ti entusiasma, pensi “Che figata, imparo cose nuove”, ma dopo un paio di anni l’energia inizia a calare. O come uno studente che frequenta medicina: è chiaro che è spinto dal desiderio di aiutare gli altri, ma dopo 5 o 6 anni di studio, chiedigli se ha ancora voglia di mettersi ogni giorno sui libri! È importante saper gestire la motivazione sia nei momenti in cui è alta, sia quando è bassa. E qui entra sempre in gioco la disciplina: anche quando non sei motivato, devi fare quello che devi fare per raggiungere il risultato. Se non lo fai, non lo raggiungi.

Il biathlon è questo: sono le montagne russe. È fondamentale imparare a gestire le sconfitte molto velocemente. Si perderanno sempre più gare di quante se ne vincano.

A che punto ti vedi ora della tua carriera sportiva?

Mi vedo quasi all’apice. Credo di aver raggiunto l’85-90% della mia maturazione, sia fisica che tecnica, perché sento di avere ancora margini di miglioramento. Inoltre, credo di essere più avanti di quanto avessi previsto. Pensavo che i miei migliori risultati sarebbero arrivati attorno ai 30 anni, invece a 24 sono già molto in alto in classifica. Sono anche più avanti rispetto a quanto avevo immaginato nella mia tabella di marcia.


Fino a che età, di solito, si pratica biathlon a livello professionistico?

La media degli atleti tende a ritirarsi intorno ai 34-35 anni. Dopo quella soglia, il fisico inizia a cedere un po’, ed è del tutto normale.

È uno sport abbastanza longevo, hai ancora molta strada davanti. Raccontaci invece di un momento di grande soddisfazione. Di recente hai vinto nella mass start di Ruhpolding. Cosa si prova in quel momento, quando riesci a coronare il tuo sogno di arrivare primo?

È stato sicuramente il giorno più bello della mia carriera. Però è accaduto in un periodo molto difficile per la mia famiglia, perché poco dopo mia nonna sarebbe venuta a mancare. Mentre correvo l’ultimo giro, sapendo che avrei vinto, le gambe si sono bloccate per l’emozione. Quando sono arrivato al traguardo, dentro di me c’era un mix di felicità e tristezza, perché sapevo che avrei perso mia nonna, che era la mia fan numero uno, da lì a poco. Per fortuna sono riuscito a vederla ancora una volta prima che si addormentasse. È stato un giorno bellissimo dal punto di vista sportivo, ma questa stagione è stata difficile dal punto di vista personale.

Sei riuscito a darle la soddisfazione di vederti vincere. Forse, è stata proprio quella tristezza a diventare la tua forza.


Forse sì. In quella settimana ho ottenuto anche altri due podi. Lei sperava di riuscire a venire a vedermi ad Anterselva, ma purtroppo era in ospedale. Per lei era quasi più importante che per me. Ha sempre avuto una passione enorme per quello che faccio. Fino all’ultimo è stata con me, anche se a distanza, mandandomi messaggi. È stato bello. Devo dire che sono stato bravo a isolare la sua malattia – che era davvero grave e precoce – dalla mia carriera. Mi sono detto che, se mi fossi disperato, non avrei migliorato la situazione, perché era qualcosa completamente fuori dal mio controllo. Quindi mi sono concentrato solo sul fare il mio lavoro nel miglior modo possibile, nonostante tutto.
In generale, voglio che le persone a me care siano coinvolte in ciò che faccio, ma non troppo. È comunque una cosa mia, il mio lavoro. Certo, avere un clima positivo attorno aiuta, ma alla fine le gare le faccio io.
A volte ho bisogno di stare solo con i miei pensieri. Mi piace anche la solitudine. Mia nonna era molto coinvolta, ma cercavo di tenerla alla giusta distanza, credo che sia importante. Mio papà lo capisce bene, essendo stato anche lui un atleta di altissimo livello. In tutti questi anni – sono 17 da quando scio – lui non si è mai permesso di dire una parola su come dovevo allenarmi, su cosa dovevo mangiare o come gestire il recupero. Si è sempre fidato ciecamente dei miei allenatori, lasciando loro il compito di gestirmi.

Questo è davvero fondamentale. A volte si vedono genitori ossessionati dal successo dei propri figli. Riuscire a mettersi da parte, lasciando che il proprio figlio segua la sua strada senza sovrastarlo, guardandolo semplicemente da lontano… credo sia un grande esempio di genitorialità. Trovo giusto che ognuno viva le proprie esperienze seguendo le proprie passioni, che possono anche discostarsi notevolmente da quelle ‘respirate’ in famiglia.

La figura genitoriale nella crescita di un atleta è molto complessa. Se un genitore è ossessionato da ciò che fa il figlio, quest’ultimo non raggiungerà mai niente. Anzi, probabilmente smetterà presto a causa di esaurimento o burnout. Mio papà è una persona estremamente tranquilla, proprio come me. Mia mamma, al contrario, è più impulsiva ed emotiva, ma grazie a mio papà è riuscita a gestire meglio le sue emozioni, anche se in totale contrasto con quelle di mio papà (ride). Mi hanno sempre lasciato fare, e questo è stato molto importante. Non sono ancora genitore, ma se in futuro lo sarò, credo di avere gli strumenti per gestire la situazione. Sicuramente sarà, come si dice in inglese, ‘challenging’.

Sfidante, certo! Facciamo un salto nel futuro: se avessi un figlio, seguiresti l’esempio di tuo padre e preferiresti che non seguisse le tue orme?

Ai miei figli farei provare tutti gli sport possibili fin da piccoli, perché vorrei che imparassero a fare tante cose, proprio come facevo io. Da bambino andavo al campo a giocare a calcio, basket, tennis… Insomma, un po’ di tutto. Sono esperienze che si imparano da piccoli, altrimenti è difficile farlo più avanti.
Senza dubbio li crescerei in un ambiente attivo, ma poi sarebbero loro a decidere quale strada seguire, in base a ciò che li appassiona. Sarebbe la loro vita, non la mia.

Un po’ come i genitori norvegesi, che fanno vivere sin da subito i loro figli a contatto con la natura. Se non fossi diventato un atleta professionista, avresti avuto un piano B?

Sinceramente non ho avuto molto tempo per pensarci, perché quando ero in quarta superiore ero già un atleta professionista. Però mi piace moltissimo cucinare, in particolare preparare lievitati, quindi probabilmente avrei scelto la strada del cuoco. Inoltre mio nonno era meccanico e, da piccolo, passavo molto tempo in officina, sotto le macchine e i camion. Mi piaceva anche quello.

A proposito di cucina, segui un’alimentazione particolare?

Questo si ricollega a quanto dicevo prima: fare sport ad alto livello non fa bene al fisico. Mangiamo tantissimo e spesso non in modo salutare. Le insalate e le vitamine, alimenti solitamente consigliati in una dieta, non sono ciò di cui abbiamo bisogno. Ci serve ‘benzina’, ossia carboidrati e zuccheri: quintali di pasta, riso, caramelle, bibite gassate. Questa è l’alimentazione di un atleta come me. Ti faccio un esempio: se faccio 5 ore di bici, cerco di assumere circa 100 grammi di carboidrati all’ora, quindi in totale 500 grammi, che equivale a mezzo chilo di zucchero semolato! Non è proprio il massimo per la salute, i denti non ringraziano.


Quando si pensa all’alimentazione di un atleta, vengono subito in mente proteine, insalate, diete rigide… e invece, ecco il grande segreto: caramelle gommose! Praticare sport a questo livello, quindi, è distruttivo dal punto di vista fisico, considerando l’alimentazione e l’enorme carico di allenamento che si affronta.

Sì, con gli anni il fisico diventa sempre più forte e riesce a sopportare sempre più carico, ma è chiaro che c’è sempre un limite. Questo limite va rispettato, perché se lo superi, poi ti servono due settimane per recuperare un allenamento. Non riesci neanche ad alzarti dal letto. Ti rendi conto di essere arrivato al limite quando, nonostante l’intensità degli allenamenti, non hai più fame, dormi poco e male, e il tuo umore è altalenante o proprio pessimo. Questi sono chiari segnali che indicano che è ora di fermarsi.

E ti è mai successo?

Sinceramente no. Non sono mai arrivato così al limite, ma conosco molte persone che ci sono arrivate, e alcune sono andate anche oltre.


Non hai paura che possa succedere anche a te?

A me? No. Sono estremamente consapevole di quello che faccio. Credo di avere il senso del limite molto chiaro in testa. Non sono ossessionato. Anzi, se un giorno devo fare cinque ore di allenamento ma dopo due mi accorgo di essere stanco, vado a casa. So che, se faccio tutte e cinque le ore, il giorno dopo non renderò e alla fine tutto andrà a rotoli. Si innesca una reazione a catena che è devastante e difficile da recuperare.

Nel tempo libero, cosa ti piace fare?

Stare con Elisa è la cosa che preferisco di più quando sono a casa. Ho trovato in lei una persona che mi capisce e che riesce a darmi il giusto equilibrio. È estremamente importante per me. Entrambi amiamo fare sport. Quando lo faccio con lei, è per divertimento. Ci piace andare in montagna con il cane. Non è il tipo di persona che ti dice sempre che sei al top; se vede che le cose non vanno bene, mi dice un sincero ‘oggi è uno schifo’. Quando ci sono le gare, ogni tanto viene a vedermi, altre volte sta a casa. In base a come vanno, o gioisce con me o mi consola.


Oltre a lei e alla tua famiglia, moltissime persone fanno il tifo per te. Hai un bel fan club che è sempre molto presente: che effetto ti fa tutto questo affetto?

Quando non faccio una grande performance, mi dico di non essere stato all’altezza del tifo che ho ricevuto. Voglio fare del mio meglio per renderli fieri e orgogliosi. Ma ho notato che, anche quando le cose non vanno bene, ricevo molto affetto. Questo è davvero bello; apprezzo che non siano ‘sul carro’ solo quando le cose vanno bene, ma anche quando vanno male.

Qual è il tuo tracciato di gara preferito e quello con cui ti senti meno affine?

Il mio preferito è Ruhpolding, che si adatta molto al mio stile di sciata. Anche Le Grand Bornand, in Francia, è una delle mie piste preferite. Una che invece non mi piace… direi Lenzerheide, in Svizzera, dove abbiamo disputato i Mondiali quest’anno. Mi sembra un tracciato senza anima.


Ci si immagina che un atleta che ha l’occasione di gareggiare alle Olimpiadi non aspetti altro, che sia già lì con la testa e che non veda l’ora. E invece, parlando con te prima, mi hai smentito. Dicci la verità su come si vive il momento olimpico. Tu l’hai già vissuto nel 2022 a Pechino, e ora siamo quasi agli sgoccioli per Milano Cortina 2026. Quanto sono davvero importanti le Olimpiadi?

L’olimpiade è un evento particolare, perché si tiene ogni 4 anni e ha una rilevanza storica. È sentita di più all’esterno, dai media, dai brand, dalla televisione, che dagli atleti stessi. Personalmente, non ci penso. Non so nemmeno cosa farò domani, figuriamoci tra dieci mesi. Non è ancora nella mia testa. È già difficile programmare una stagione. Poi se sei proiettato solo su quello e quando arrivi lì sbagli, cosa fai? Mandi tutto a rotoli? Bisogna ragionare passo dopo passo. Quando arriveranno le Olimpiadi, ci penserò. Altrimenti, sprechi un’energia mentale incredibile, drenante.
Se ti fai prendere troppo dall’emozione prima, quando arrivi lì sei già cotto, spappolato

C’è molta mente, molto biathlon, in questo pensiero: concentrarsi sull’oggi e pensare al domani solo quando arriva. Quale consiglio daresti a un giovane atleta che sogna di seguire il tuo stesso percorso?

Metterci passione, impegnarsi e, soprattutto, non dimenticare di divertirsi. 
Lo sport deve essere prima di tutto divertimento.

Se un atleta non prova più piacere nel praticare ciò che fa, è meglio che smetta.

E se potessi parlare al Tommaso di qualche anno fa, cosa gli diresti?

Gli direi che è stato bravo. Non rimpiango nulla di quello che ho fatto finora nella mia carriera sportiva. Credo di aver sempre preso le decisioni giuste. Una di queste è stata sicuramente la scelta di studiare lontano, a 240 km da casa. Volevo diventare un atleta professionista, inseguire il mio sogno. Sia io che i miei genitori eravamo convinti che quella scuola fosse la strada giusta per farmi credere davvero che fosse possibile.
Gli direi semplicemente “bravo”.

E ‘bravo’ te lo diciamo anche noi.
Bravo, perché hai creduto nella tua passione, in ciò che hai sempre amato fare, senza rinchiudere questa tua ambizione in un cassetto.
Per realizzare i propri sogni, a volte, bastano solo due parole ‘magiche’: perseveranza e dedizione.

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