Basta un click.

Una frazione di secondo per imprimere per sempre un momento: un luogo, un pezzo di storia, un attimo della nostra vita o di quella di chi ci sta di fronte.

Memorie riflesse in una lente, attraverso tre generazioni.

PARTE I

Le origini - Sebastiano e Nanni Gadenz

CRISTINA GADENZ,
Primiero san martino di castrozza

Categoria

novembre 2025

Testo di Linda Scalet, foto di Nanni Gadenz

Nanni Gadenz,
al centro — precursore dell’archivio fotografico Gadenz

 

Basta un click.
Una frazione di secondo per imprimere per sempre un momento: un luogo, un pezzo di storia, un attimo della nostra vita o di quella di chi ci sta di fronte.

È proprio questo, ciò che mi affascina di più della fotografia, e ciò che trovo di un potere straordinario: ogni istante che viviamo è unico e irripetibile, mai identico a un secondo prima o a un secondo dopo. Eppure, una semplice macchina fotografica può congelarlo e restituirci quelle emozioni e sensazioni, ancora e ancora, ogni volta che vogliamo riviverle.

La fotografia ci permette di viaggiare, sia nello spazio che nel tempo: ci mostra come era un luogo in un’epoca passata, facendoci sentire spettatori viventi, e dà un volto a chi non abbiamo mai conosciuto – pensiamo, ad esempio, a un padre andato in guerra subito dopo aver visto nascere il proprio figlio e mai più tornato. Nessun’altra forma d’arte riproduce la realtà con la stessa fedeltà: per quanto realistico possa essere un dipinto, l’obiettivo fotografico vince sempre sul pennello.

Ma la macchina fotografica, di per sé, non basta. Serve una persona dietro di essa, mossa dall’intenzione – spesso pura passione – di catturare quell’attimo per l’eternità.

È questo il pensiero che mi attraversa la mente guardando le straordinarie fotografie in bianco e nero dell’Archivio Gadenz, a Fiera di Primiero.

Immagini nitide e definite, che si incontrano ovunque: in cartoline, musei, libri, giornali o in attività che vogliono celebrare il territorio con una bella stampa paesaggistica.

Osservando alcune di queste foto, soprattutto quelle del centro storico dei paesi o della vita rurale, sembra di tornare indietro di secoli, eppure sono passati appena cento anni. Senza questa testimonianza preziosa, non sapremmo com’era questo luogo un tempo.

Quelle fotografie portano due nomi: Nanni e Lallo Gadenz. E se sono arrivate fino a noi, lo dobbiamo anche all’impegno di Cristina, rispettivamente nipote e figlia, che continua a custodire e tramandare questa eredità. Grazie a un meticoloso lavoro di catalogazione, tuttora in corso, di oltre 3.000 immagini a lei pervenute, Cristina sta rendendo accessibile questo prezioso patrimonio visivo.

Anche lei fotografa da una vita, l’abbiamo incontrata per scoprire cosa si cela dietro queste immagini preziose e il percorso che le ha portate fino a noi, rivivendo le loro storie attraverso i suoi occhi. 

Fiera di Primiero,
Via Guadagnini nel 1956 — Foto di Nanni Gadenz.

 

Mio nonno, Nanni Gadenz, si avvicinò alla fotografia per volontà di suo padre, Sebastiano.
Commerciante e appassionato di fotografia, possedeva due carto-librerie, veri e propri bazar che vendevano un po’ di tutto, con un ampio reparto di cartoline realizzate con le immagini che a volte lui stesso fotografava o commissionava: una a Fiera di Primiero e l’altra a San Martino di Castrozza.

Più che avere l’occhio fotografico, aveva l’occhio per il commercio: in un’occasione — quando si presentò per fare un acquisto un valletto del principe Umberto I di Savoia, in vacanza a San Martino di Castrozza — non perse tempo a descriversi il giorno seguente come fornitore della Real Casa. Vedendo in Nanni, il primo di nove figli, una certa dote, decise di iscriverlo a una scuola di fotografia a Milano, con l’idea di trasformare il suo talento in un’attività remunerativa, realizzando cartoline e brochure pubblicitarie per le sue attività.

Così Nanni, anche se controvoglia, intraprese questo percorso e iniziò ben presto la sua attività di fotografo: paesaggi, momenti di vita rurale, ritratti di famiglie e di coscritti – ovvero i ragazzi che diventavano maggiorenni – foto dei centri storici e delle attività dell’epoca.

Dove poteva, ritraeva come soggetto di sfondo anche la sua inseparabile automobile “Scat”, che con orgoglio chiamava la sua “Pantera”. Mi hanno raccontato che, negli anni ’50, una sua foto che ritraeva la Baita Segantini è stata addirittura esposta in un aeroporto negli Stati Uniti!

Malga Rolle e il Cimon della Pala,
sulla destra l’inseparabile auto “Scat” — Foto di Nanni Gadenz.

Ogni situazione raffigurata nelle sue immagini ci restituisce una dimensione diversa di luoghi che conosciamo solo nella loro veste attuale.

Così, nel laghetto Plank — oggi attraversato solo da alcuni germani reali — fa capolino una piccola barca a remi; in un maso nella località San Giovanni, una donna in una giornata di sole lavora a maglia un vestito per i propri figli, che le stanno accanto sorridenti. In un altro prato, ai piedi del Cimon della Pala, un’altra donna, con il fazzoletto in testa, porta in spalla un bastone arcuato alle cui estremità pendono due secchi, probabilmente pieni di latte appena munto.

Un altro aspetto di vita quotidiana è ritratto in un’immagine che mostra una donna mentre lava le pentole nella fontana esagonale del paese. Appaiono poi il centro di Fiera di Primiero con il vecchio caffè Roma e, di fronte, una pompa di benzina “Lampo”, oppure una gara di sci — con i tradizionali sci di legno — nel pieno centro di San Martino di Castrozza.

Dopo la scoperta delle Pale di San Martino da parte dei primi alpinisti inglesi, intorno al 1870, sempre più turisti iniziarono a visitare questa zona e ben presto le località della valle divennero importanti mete di villeggiatura estiva e invernale.

Ritratti e vita rurale

In che epoca è vissuto esattamente Nanni e come funzionava la fotografia a quel tempo?

Mio nonno è nato nel 1900 e ha lavorato principalmente tra il 1925 e il 1960. Nei primi anni della sua carriera professionale, non esistevano ancora i rullini fotografici: le macchine utilizzavano lastre di vetro. Per le foto in studio impiegava un apparecchio di grandi dimensioni chiamato Reflex Studio, mentre per le uscite in montagna utilizzava macchine più leggere, come la Linhof e poi, dal 1940, la Mamiya.
Si doveva inserire una lastra per volta, caricandola in un apposito portafilm chiamato “chassis”. Sulla lastra veniva applicata una particolare emulsione sensibile alla luce.

Ai tempi di suo padre, Sebastiano, si utilizzavano lastre al collodio, molto complesse da preparare, perché la sostanza doveva essere applicata immediatamente prima dell’uso. All’epoca di Nanni, invece, erano disponibili le lastre a gelatina secca, già pronte all’uso, tutte della dimensione di 10×15 o 13×18 cm.

Per quanto più pratiche, queste lastre erano comunque lontane anni luce dalla facilità di scatto delle fotocamere digitali odierne. Ma come si arrivava, esattamente, da una lastra o da una pellicola allo sviluppo di una fotografia stampata?

Dopo lo scatto, le lastre venivano estratte e maneggiate con appositi manicotti, perché il materiale era fotosensibile e tutto doveva avvenire al buio. Poi si eseguivano quattro operazioni fondamentali, sempre al buio: lo sviluppo, con una soluzione chimica a base di Fenidone CH1; il fissaggio, con iposolfito di sodio; il lavaggio, per eliminare le sostanze chimiche residue e infine l’asciugatura, che durava alcuni minuti.

A questo punto si passava alla stampa: il negativo veniva proiettato tramite un ingranditore sulla carta fotosensibile, e la luce ne imprimava l’immagine. Anche la stampa richiedeva poi quattro passaggi analoghi a quelli della lastra: sviluppo, fissaggio con altri chimici, lavaggio e solo alla fine l’asciugatura.


Le immagini stampate, potevano essere ingrandite quanto si voleva, perché avevano una risoluzione molto alta. Molte venivano stampate su carta di grandi dimensioni, poi montate su pannelli di truciolare e fissate con colla vinavil mentre erano ancora bagnate.
Ci voleva circa una settimana perché un pannello fosse pronto.

I PAESI

Come organizzava le sue fotografie? Segnava date e luoghi sulle lastre o su un registro? Quante lastre in vetro sono arrivate fino a te e a tuo papà, e quante sono state effettivamente stampate o digitalizzate? Hai idea di quante possano essere andate perdute?

Molte delle immagini di Nanni sono andate perse, mentre le altre sono poi passate ai tre figli: Lallo, Sebastiano e Fernando.

Non c’è mai stata una grande organizzazione: quello che ho ricevuto era tutto dentro scatole di cartone, senza nomi né numeri, e alcune lastre erano addirittura attaccate tra loro. Tra le lastre che sono arrivate a me, circa 3000, ne ho catalogate circa 1000, di cui circa 300 sono state digitalizzate e restaurate. A partire dagli anni ’50 ho invece dei negativi 6×6 o 9×12, ma è un vero lavoraccio digitalizzare tutto.

Mio nonno ha sempre fotografato in bianco e nero, anche se aveva imparato una particolare tecnica di colorazione chiamata gessaggio, durante il periodo a Milano. Direttamente sulla stampa in bianco e nero si andava a colorare con matite e gessetti sfumati con pennelli, talvolta anche con acquerelli. Era un metodo costoso che richiedeva grande abilità e molta pazienza.

Come hai fatto a ricostruire date e luoghi di ogni immagine?

Ho chiesto aiuto ad alcuni storici locali, come il maestro Brunet, e a guide alpine, ad esempio Giampaolo del ristorante “La Ritonda”. Alcune informazioni le ho ricavate direttamente da mio papà, ormai grande. Ma c’è ancora moltissimo da fare: è un lavoro che richiede tempo e attenzione, un patrimonio che forse prenderò in mano davvero quando andrò in pensione.
Per digitalizzare le lastre ho acquistato uno scanner professionale; il restauro, invece, è seguito da mia figlia Marga, che utilizza programmi di editing moderni.

Per me hanno un fascino tutto particolare, anche se non raggiungono la definizione delle foto di oggi. Forse sono un po’ di parte: appartengo alla “vecchia scuola”.

Mucche al pascolo
a Passo Rolle,

immagine del 1940 — prima e dopo la colorazione a mano — Foto di Nanni Gadenz.


È affascinante vedere come queste immagini rivivano di generazione in generazione, osservate ogni volta con occhi e sensibilità diversi.

Proprio come un tempo, quando l’immagine veniva proiettata tramite un ingranditore sulla carta fotosensibile e la luce ne imprimeva il disegno, oggi sono le mani delle nuove generazioni a illuminare queste fotografie. Così le immagini continuano a esistere, a testimoniare un luogo, un volto, un momento passato.

Danno memoria, e con essa continuità e speranza.

Per scoprire come l’archivio si è evoluto attraverso le generazioni di Lallo e Cristina Gadenz, prosegui la lettura con il prossimo articolo.

Questa è la prima parte dell’intervista all’Archivio Gadenz. Leggi anche la parte due, clicca qui

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