“È un’artista”.

Ormai è un concetto comune, un aggettivo spesso usato come sinonimo di stravagante. Qualsiasi sia il campo in cui ti muovi, se ti occupi di arte vieni probabilmente percepito come fuori dalla norma: un po’ matto, eccentrico, o al contrario molto riservato… Non esiste un identikit preciso, ma c’è una caratteristica che ti distingue dagli altri.

Memorie riflesse in una lente, attraverso tre generazioni.

PARTE II

L’evoluzione - Lallo e Cristina Gadenz

Questa è la seconda parte dell’intervista all’Archivio Gadenz.
Se non hai ancora letto la prima parte, ti consigliamo di iniziare da lì.

CRISTINA GADENZ,
Primiero san martino di castrozza

Categoria

novembre 2025

Testo di Linda Scalet, foto di Lallo e Cristina Gadenz

Lallo Gadenz,
fotografo, figlio di Nanni ed erede dell’archivio Gadenz.

 

“È un’artista” Ormai è un concetto comune, un aggettivo spesso usato come sinonimo di stravagante. Qualsiasi sia il campo in cui ti muovi, se ti occupi di arte vieni probabilmente percepito come fuori dalla norma: un po’ matto, eccentrico, o al contrario molto riservato… Non esiste un identikit preciso, ma c’è una caratteristica che ti distingue dagli altri.

Se a questo si unisce la passione per la montagna, il quadro è completo. Chi arrampica o pratica sport estremi deve avere “qualcosa che non va”, altrimenti resterebbe con i piedi ben piantati a terra. È così che si delinea la figura di Lallo Gadenz, figlio di Nanni Gadenz e fotografo di alta montagna.

Ma si sa: è proprio dietro la sregolatezza, spesso percepita come stranezza, che si cela il genio.

Come ci racconta sua figlia Cristina, Lallo si è avvicinato alla fotografia grazie alla sua passione per la montagna. Saliva su pareti e creste impervie, seguendo l’istinto e il desiderio di immortalare luoghi che pochi potevano raggiungere.

Ogni scatto nasceva così dall’incontro tra la montagna – con i suoi spigoli, i percorsi obbligati e le regole di movimento – e la visione personale del fotografo: il suo occhio attento, la sensibilità che lo portava a soffermarsi su un dettaglio, una luce, un angolo particolare. Una combinazione, fatta di intuizione e roccia in quanto elemento, che ha reso ogni scatto unico e irripetibile.

Ritratti, ARRAMPICATE E SOCCORSI

Da dove è nata la passione di tuo papà per la fotografia e per la montagna?
Ha semplicemente seguito le orme del padre Nanni?


Non è facile per me ripercorrere la sua storia, perché anche io non ne conosco molti dettagli. Ci siamo incontrati solo da adulti, quando avevo ventinove anni e, in un momento di crisi personale, decisi di volerlo conoscere. Se n’era andato quando ne avevo due, e per fortuna da quel momento abbiamo riallacciato il nostro rapporto. Mi sono fatta coraggio, gli ho scritto e sono andata a trovarlo. Da lì ci siamo ritrovati, o meglio trovati, perché non c’è mai stato un “prima”, e insieme abbiamo anche realizzato alcune mostre fotografiche.

A differenza di mio nonno, Nanni, a lui non interessava l’aspetto commerciale della fotografia. Non sopportava l’idea di dover fare servizi a matrimoni per guadagnarsi da vivere. Era uno spirito ribelle, un po’ sbandato se vogliamo, che amava andare in montagna e ritrarre i volti delle persone che la frequentavano, prestando grande attenzione alla luce, ai controluce e ai tagli delle immagini.

Anche mio papà, nonostante l’avvento dei colori, ha sempre mantenuto le sue fotografie in bianco e nero. Dopo Nanni, ha preso in mano l’azienda di famiglia, trasferendo nel 1968 l’attività nel negozio dove attualmente faccio foto io, sempre a Fiera di Primiero.

Se per Nanni la fotografia era principalmente una registrazione di informazioni visive, con Lallo ci addentriamo invece in un altro aspetto importante di questa disciplina: la fotografia è anche un’arte, fatta di tecniche e sguardi originali, frutto di riflessione e intuizione, che riesce a cogliere e mettere in risalto particolari che l’occhio in genere non nota.

È il desiderio di inoltrarsi in territori inesplorati, sia nell’allontanarsi dal convenzionale in fotografia, sia nell’avventurarsi negli ambienti di montagna in cui ha scelto di portare questa passione.


È la voglia di ritrarre in modo realistico squarci di vita, ma non una vita qualsiasi: la sua vita, quella che si era scelto, immortalando principalmente le persone che condividevano il suo stesso ambiente.

“Raffiche di vento gelido, appigli velati di ghiaccio, una marcia sulla neve…”: così Lallo descrive la salita invernale dello Spigolo del Velo, compiuta assieme alla guida Giacomo “Meto” Scalet. Furono i primi a realizzare tale impresa, nel 1953.

Torre Serena,
traversata aerea — Foto di Lallo Gadenz.

Raccontaci del suo lato da alpinista, senza il quale non sarebbe riuscito a spingersi così in alto per fotografare sul campo persone che arrampicano.
La difficoltà del riprendere le persone in alta montagna: attrezzatura pesante, freddo, problemi legati all’altitudine.


A parte qualche foto su lastra, come quella che ha realizzato durante la traversata della Torre Serena – che, secondo me, è semplicemente spettacolare – la maggior parte delle sue immagini è su pellicola. Con le pellicole non era come oggi: non potevi scattare infinite foto, avevi solo dodici pose per rullino e non si poteva modificarle. Scattava anche in invernale, con freddo intenso, appeso a una corda. Faceva parte del soccorso alpino, quindi era abituato a sfide estreme.

Non era invece portato per i matrimoni, un lavoro che sarebbe stato ben retribuito: ne ha fatti pochissimi perchè andava nel panico, diventava molto ansioso nel fotografare cerimonie. Preferiva di gran lunga catturare in solitaria ciò che vedeva e viveva. Non cercava il guadagno. Era un’anima un po’ disordinata, artista nella vita in generale, e questo traspare da ogni suo scatto.

Della vostra collaborazione, cosa ci racconti?

Dal momento in cui ci siamo ritrovati, ho iniziato a ricostruire la storia della mia famiglia. Mi ha aiutato nella catalogazione delle fotografie di suo padre, suggerendomi luoghi e date di alcuni scatti. Aveva molti progetti innovativi e ha sempre investito in apparecchi all’avanguardia. Negli ultimi anni si era comprato una Hasselblad H1 con dorso digitale: un piccolo banco ottico a pozzetto, da guardare dall’alto, molto costoso all’epoca.

Voleva anche acquistare un computer, perché era molto interessato a progredire con la tecnica fotografica. Dopo otto anni dal nostro ricongiungimento, è mancato. Purtroppo l’ho conosciuto tardi.

Quello che so sulla fotografia l’ho imparato da sola: prima da autodidatta, poi “in bottega” con altri fotografi – dai Manfrotto a Bassano, poi a Trento con Eccher, un fotografo che seguiva le mostre del Mart e tutti i musei provinciali. Mi sono anche iscritta a un corso di fotografia in California, dove sono rimasta alcuni mesi. Eppure, anche se in modo involontario, qualcosa da lui ho preso: la passione per i ritratti, per esempio, così come lo stile in bianco e nero. Io non riesco ad accettare il colore.

Mi sento però sempre in qualche modo “minore” rispetto a lui. Temo il confronto e soffro di un complesso di inferiorità. Lui, a differenza mia, non si preoccupava affatto del successo di suo padre.

Montagna invernale e territorio

Sì, perché quando qualcosa ti appartiene, trova sempre il modo di raggiungerti. Vuoi per casualità, vuoi perché, anche se il rapporto è fragile, esiste un filo sottile e impercettibile che ti indica una direzione, spesso senza che tu te ne accorga. A volte basta sentire parlare di una persona per caso, o soffermarsi per un istante su un’immagine che ti cattura come se ti appartenesse. Ricordi, immagini che affiorano nella memoria e che, anche se svaniscono, sono comunque passati dal cuore.

Ma parliamo anche della tua professione di fotografa, che pratichi da una vita: chiunque nella valle di Primiero ha almeno una foto scattata da te. Qual è l’aspetto della fotografia che ti affascina di più? E secondo te, come sei arrivata alla fotografia anche senza che uno dei tuoi parenti ti facesse da guida?

Forse ce l’avevo già dentro: viaggiando tanto, avevo sempre con me la macchina fotografica. Nonostante alti e bassi, è una passione che mi ha sempre accompagnata. Dai diciotto anni, dopo le scuole, ho sempre seguito questa strada. Da giovane avevo contattato giornali e quotidiani come freelance, lavorando per “L’Adige” e “Alto Adige”. Dovevo sviluppare le immagini velocemente e spedirle “fuori sacco” — andavo alla fermata dell’autobus con la busta contenente le fotografie, che venivano poi consegnate al giornale lo stesso giorno… ed è lì che è nata la mia passione.

Per alcuni anni ho seguito anche i festival del cinema; in America sono andata da Moroder e ho realizzato un servizio per un’agenzia di Milano. Non ho mai avuto un grande amore per il territorio: sarei stata più felice in città, a specializzarmi nei ritratti.

SCATTO DI GENERAZIONE: CRISTINA

Quando scatti, pensi già alla foto in bianco e nero?

Sì, tutti i miei scatti sono pensati in bianco e nero. Presto molta attenzione alle luci. Il colore mi confonde; il bianco e nero, invece, è più essenziale, più poetico.

Nella catalogazione delle tue foto sei stata più diligente?

Non molto. Ho messo in ordine le cose degli altri, ma meno le mie. Anche se, in realtà, data e luogo ci sono; sono solo da digitalizzare. Io sono passata dallo scatto a pellicola al digitale. Mi è toccato a malincuore, anche se devo dire che la tecnologia, in alcuni casi, viene molto incontro. Ad esempio, ora che ho perso un po’ di vista, l’autofocus mi dà una grossa mano.

Ma quella dei rullini era la vera fotografia per me: avere solo 12 scatti, doverli gestire al meglio e portare a casa il lavoro, cambiare dorsi e rullini in velocità… tutto questo aveva un fascino unico.

“Dovertela cavare con 12 scatti e portare a casa il lavoro”.

Immortalare l’attimo: una volta era proprio così. Non c’erano scatti a raffica di cui scegliere il migliore, né la possibilità di postproduzione come oggi, dove ogni foto può essere ritagliata a piacere, modificata in tonalità e saturazione, mascherando oggetti per metterli in risalto, e con l’avvento dell’intelligenza artificiale si può persino rimuovere facilmente qualsiasi elemento indesiderato. Sicuramente più comodo e con grandi potenzialità artistiche, ma molto meno autentico.

È un peccato che si sia persa questa caratteristica fondamentale della fotografia: vedere “a nudo” la vera abilità di un fotografo, la capacità di cogliere un istante, un momento unico che dura un attimo.

Passo delle Farangole,
traversata invernale — foto di Lallo Gadenz.

Eppure il mondo va avanti e, che lo si voglia o no, bisogna abituarsi alle nuove tendenze.

Se l’asticella cambia e non cambiamo anche noi, si resta indietro; è comunque corretto giocare “ad armi pari”. Ma resta una scelta personale, con cui anche sua figlia, Marga – anch’essa appassionata di fotografia – dovrà fare i conti.

Ha molta passione, sono stata fortunata sotto questo punto di vista; premiata. È anch’essa appassionata di bianco e nero, anche se appartiene a un altro mondo, a un’altra generazione. Le piace anche disegnare, attualmente è iscritta al corso di Graphic Design e Multimedia all’accademia LABA di Brescia. Pensa già al futuro: le piacerebbero le produzioni cinematografiche in 3D.

Ha una visione particolare, molto artistica. Se ci fosse stato mio papà, sarebbe stato un confronto interessante. C’è una bella foto di loro due, con la bimba in braccio da piccola.

Sorrido, perché ancora una volta è proprio una foto a dare memoria a una persona, in questo caso a Marga, di un attimo che non può ricordare di aver vissuto.

Lallo Gadenz,
con la nipote Marga — Foto di Cristina Gadenz.

 

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